L’ultimo ricordo spensierato prima di essere travolti dalla pandemia di Covid-19. L’ultimo viaggio “prima”. Quel viaggio in cui le preoccupazioni potevano andare da “speriamo che non perdano la mia valigia!!” al momento di angoscia del “avrò portato tutto? Ma sì, al massimo faccio shopping appena arrivo a destinazione”, passando per “non peseranno troppo, i bagagli?!”. È cambiato tutto, da allora. Anche chi ha avuto la fortuna – pur con mille accortezze – di organizzarsi la scorsa estate, sa che c’è qualcosa che non tornerà più. E quando c’è chi dice che siamo degli esagerati, che in fin dei conti si tornerà a strusciarsi dal tramonto all’alba al Cavo Paradiso di Mikonos e a prendere un drink assiepati su uno dei rooftop di Manhattan, sì, vero, si farà, ritengo che sarà comunque qualcosa di diverso. In qualche modo si farà. Ma non sarà più come prima. Se il nostro modo di viaggiare è cambiato dopo l’attentato alle Torri Gemelle di New York – e sono trascorsi quasi vent’anni – e il terrorismo ha comportato maggiori controlli di sicurezza rispetto ai quali non si è più tornati indietro – e ciò riguarda più che altro il nostro bagaglio – ora a essere controllato sarà il nostro corpo. Qualcosa da cui noi non ci possiamo separare. Perché forse stiamo portando in giro una bomba di cui siamo all’oscuro. Che potrebbe non toccare noi, ma avere una potenza deflagrante su altri individui più fragili. Di cui dobbiamo prenderci cura. È un nostro dovere.
Sarebbe bello che qui nei commenti o sui social di Valigia a due piazze (Instagram e Facebook) raccogliessimo un diario dell’ultimo viaggio spensierato “prima di”. In attesa di poter tornare a viaggiare con giudizio e rispetto, del nostro prossimo e del Pianeta che ci ospita.
Perché è vero che se vogliamo far parte di una società che sappia assisterci ed essere altruista ed empatica dobbiamo esserlo noi per primi, ma è anche vero che non possiamo negarci pensieri leggeri, con molto tatto verso coloro i quali hanno sofferto e stanno soffrendo sulla loro pelle perdite dovute al Covid-19, così come ci fa solo bene dedicare qualche momento a programmazioni di viaggi futuri, sussurrate sotto voce, a volte appena accennate al nostro partner, all’amica con cui sogniamo di prendere di nuovo il sole d’inverno, al figlio adolescente prima che ci sfugga via per organizzarsi, zaino in spalla, con i suoi compagni.
Elenchiamoli qui, i momenti belli. Gli ultimi ricordi spensierati prima della pandemia. Prima che tutto cambiasse e che il nostro mondo si spostasse dalle aule, dagli uffici, dai ristoranti, dalle spiagge, dalle palestre allo schermo di un computer. Prima che i nostri contatti finissero filtrati dai social e dalle videochiamate. Prima che i nostri sorrisi fossero nascosti dietro a un fazzoletto che ci salva la vita.
Iniziamo noi. Siamo sempre stati i viaggiatori di Natale, sì, ben prima dei canonici giorni di partenza, il 26 o il 27 dicembre. A volte – calendario e impegni permettendo – già il 21 o il 23. E speriamo di poterlo rifare presto. Siamo partiti la notte di Natale, a volte. E così siamo stati il 25 dicembre in costume da bagno all’Isola di Cozumel, in Messico, o senza maniche a Buenos Aires, scottati su braccia e spalle dopo una passeggiata a San Telmo, o in un cottage in mezzo al nulla tra Devon e Cornovaglia (e là è davvero tutto chiuso, anche i ristoranti e i supermarket, per cui sfamarci non è stato agevole) per andare a nutrire le volpi, ma abbiamo anche vissuto il Natale in India, che sembra il titolo di un Cinepanettone e in effetti di ridicolo c’era un Babbo Natale poco credibile che forse voleva teneramente farci sentire a casa. Non dimenticherò mai la notte del 31 dicembre quando abbiamo raggiunto Petra nell’oscurità più assoluta, con il tragitto illuminato solo dalla luce fioca delle candele o nel Sahara, in una tenda sotto cinque coperte, quando non ho mai patito così freddo in tutta la mia vita (ah, no, forse una nevicata a Parigi!). Forse il Natale più toccante è stato in Terra Santa, il vero ombelico del mondo. E come dimenticare (non solo per la sventura) quando sono stata ricoverata la sera del 29 dicembre o del 30 dicembre di dieci anni fa in una clinica di Cuzco, sulle Ande peruane, per un’infezione alle tonsille? E questo è solo un frammento dei ricordi di una vita di viaggi. Perché fanno parte della mia vita, come dar da mangiare a Margherita, il mio cane, o scrivere un articolo, dedicarmi alla stesura di un nuovo libro o registrare un pezzo in radio. I viaggi sono sempre stati la boccata d’aria strappata alla quotidianità, un ponte lungo, una fuga alla fine di una giornata di lavoro. Ciò che ti resta dentro dopo un viaggio non si consuma in quei tre giorni o nelle due settimane d’estate. È un bagaglio che va a costruire noi stessi. Ci aiuta a cambiare idea, ad aprirci, a essere più accoglienti. A volte ci spinge a studiare, a informarci, a desiderare di saperne di più.
L’ultimo viaggio prima della pandemia è stato in Turchia. Desideravamo tornare a Istanbul da tempo e abbiamo aggiunto la variante di Efeso e Pamukkale. Sembra ieri. È un’altra vita. La fila sotto la pioggia in attesa di entrare di nuovo a Santa Sophia (pochi mesi dopo è diventata moschea), una delle meraviglie di questo mondo, quando senti l’alito caldo di chi ti spinge perché tu faccia un impossibile passo più in là, sui calcagni di chi ti sta davanti. Gli ultimi viaggi già programmati e pagati e non fatti avrebbero dovuto riportarci a Parigi (sto scrivendo il libro Parigi al femminile, la cui uscita è slittata di un anno, se invece volete viaggiare con il pensiero e col cuore o organizzare qualcosa appena si potrà, potete scegliere – nella stessa collana – Londra al femminile e New York al femminile) e a Gerusalemme (anche in questo caso per un progetto editoriale, che spero possa proseguire anche nel post pandemia). E poi in programma per l’estate c’era un viaggio lontano, per tornare in un luogo che amiamo molto, dopo dieci anni. Ritengo che siamo stati fortunati ad andare in Francia per una decina di giorni, rigorosamente con le nostre mascherine (anche quando il pericolo non era per nulla contemplato dai nostri ospiti) e rispettando il distanziamento sociale. Scegliendo anche di rinunciare a visitare luoghi in cui si stavano assembrando troppe persone e sempre all’aperto. Siamo stati di passaggio in Borgogna dove si produce lo Chablis e poi verso il Canale della Manica, in Bretagna e in Normandia. È stato quasi un rientro di corso, alla fine della vacanza. Seguivamo sul sito ufficiale del Governo francese i dati dei contagi, siamo rientrati quando stavano superando i tremila al giorno e di lì a poco è stato un crescendo. La Francia, circa un mese fa, in un giorno – se la memoria non mi inganna – ha superato i settantamila contagi in 24 ore. Quando siamo rientrati, da noi in Italia erano ancora tutti a fare grigliate in compagnia e a bere aperitivi in spiaggia. A tutti mancano le giornate in compagnia, ma è semplice: non è il momento.
Quale sarà il prossimo viaggio? Saremo sereni nel prendere un aereo che deve percorrere una tratta di sei, otto o nove ore? E se qualcuno ci starà troppo vicino mentre siamo in coda per passare la sicurezza in aeroporto? E mangeremo tutti nello stesso momento, quando passano a distribuire il pasto in volo? Mio marito non ha mai perso tempo e il suo tablet contiene i road trip più belli che si possono anche solo immaginare, le chicche imperdibili che solo chi studia prima di un viaggio può scoprire, i sogni che vorremmo vedere realizzati. Quando sarà il prossimo viaggio? Il 2021 appena iniziato sarà un anno di passaggio, tra una terza ondata (quasi) certa che speriamo non ci porti tutta la sofferenza delle prime due, qualche altro confinamento e le prime somministrazioni di vaccini, che al momento stanno andando troppo lentamente. Forse si potrà fare qualcosa d’estate, ma una normalità dovremmo riuscire a raggiungerla tra un anno esatto, con il 2022 alle porte.
Proviamo a ripercorrere i primi ricordi che si fanno spazio nella memoria se pensiamo, per esempio, ai luoghi più ghiacciati in cui abbiamo dormito, nei nostri viaggi. O dove abbiamo patito di più freddo.
Inizio io:
- la notte di Capodanno 2013 nelle tende berbere ai piedi di Erg Chebbi, Sahara, Marocco,
- fine dicembre 2011 a Parigi, mi erano sanguinati addirittura i piedi (e mia mamma ha aggiunto un altro inverno a Parigi, ricordo una coda infinita per vedere una mostra di Picasso e noi ibernate, era dicembre 1996/gennaio 1997),
- gennaio 2010 a New York, da non riuscire a stare in piedi per il vento che sferzava nei canyon di Manhattan,
- vacanze di Natale in India (dicembre 2014/gennaio 2015), in una stanza gigantesca e tipo ghiacciaia a Orchha, nel Madhya Pradesh,
- un’altra stanza enorme e gelida a fine dicembre 2013 in Marocco a Boumalne Dades, nella provincia di Ouarzazate che però se la batte con un bagno in cui mancavano giusto i cubetti di ghiaccio nel Devon, sud dell’Inghilterra (dicembre 2018),
- ma anche il rientro di un viaggio di lavoro in Senegal nel maggio del 2004: avevamo volato di notte e l’aereo era una cella frigorifera e io non ero abbastanza coperta, nonostante mi fossi fatta dare un paio di quei plaid che solo a strofinarli fai le scintille,
- e avete mai trascorso un agosto a San Francisco? Noi nel 2016. Vi ricordo la battuta di Woody Allen che a memoria recita così: l’inverno più freddo della mia vita è stato un agosto a San Francisco. Come dargli torto.
I momenti in cui in viaggio abbiamo avuto paura?
- a Istanbul nella primavera del 2010 quando un tassista ha guidato come un pazzo di sera per portarci a cena da Sultanahmet a Nevizade Sokak. Credevamo che saremmo stati sbalzati nel Corno d’Oro,
- quando mi sono trovata di fronte al ponte sospeso Carrick-a-Rede nella Contea di Antrim, in Irlanda del Nord, agosto 2012. Io soffro di vertigini e all’idea di mettere solo un piede su quel ponte di legno mi stavo sentendo male,
- quando sono stata ricoverata per un ascesso alle tonsille in una clinica di Cuzco, sulle Ande del Perù in viaggio di nozze, dicembre 2010,
- a Bali, Indonesia, quando ho preso un batterio intestinale che mi ha costretto a letto e il medico aveva temuto che fosse salmonella. Era l’agosto del 2013,
- agosto 2019 in Cina, a Luoyang, nella provincia di Henan, alla confluenza del Fiume Giallo. Non l’ho mai raccontato, ma sono stata ricoverata e poi operata a una gamba. Ho rotto il muscolo tibiale e due legamenti. Ancora adesso, dopo oltre un anno, ho problemi che mi porterò avanti per anni, secondo i medici,
- ancora un driver in Turchia, quando siamo andati a prendere l’aereo a Denizli Cardak per tornare a Istanbul dopo la visita a Pamukkale, fine dicembre 2019. Erano le 5 del mattino, era ancora buio pesto e lui aveva molto sonno. Continuava a sbandare con il pulmino e la morte era dietro l’angolo,
- ultimo tassista, quello che ci ha portato dall’aeroporto di Singapore al Marina Bay Sands, dopo aver visitato Java e a Bali nel 2013. Guidava come un matto lungo il viale e io non sapevo più dove reggermi,
- quando sono salita su un aereo con le eliche che non so come abbia fatto a sollevarsi in volo nel mio primo viaggio in Perù, che era per lavoro, marzo 2004. Avevamo sorvolato la città pre colombiana di Chan Chan. A ricordarli ora, scappa quasi un sorriso agrodolce. Tranne la Cina, di cui riderò quando mi sarò ripresa del tutto.
E i cibi del mondo che mangereste ora? A tutte le ore!
- i lumpia che cucinava la nostra ospite nel B&B di Yogyakarta, sull’isola di Java. I lumpia sono un po’ più grandi degli spring roll, gli involtini primavera,
- i gyoza fritti e lunghi (enormi!) mangiati in un ristorante di Luoyang in Cina poco prima dell’incidente di cui sopra. E che poi Francesco nei giorni di degenza dopo l’ospedale mi aveva portato anche in albergo. Li sogno spesso,
- la pastilla, piatto tipico del Marocco. Una specie di sformato di carne (piccione o pollo) e spezie, contenuto in una sfoglia croccante. Le migliori le abbiamo assaggiate a Fès e a Meknes,
- le costine di maiale affumicate del Big John’s Texas BBQ a Page, in Arizona,
- mio marito Francesco aggiunge i dolci pastel de nata del famoso Pastéis de Belém a Lisbona, in Portogallo,
- io sono meno da dolci, ma inserisco i dorayaki (due piccoli pancake farciti con marmellata di fagioli rossi azuki) di Kyoto,
- le aringhe crude di Copenaghen e quelle di Stoccolma che si mangiano all’interno di un panino, acquistato nei chioschi su strada,
- sogno spesso anche le medialunas di Buenos Aires, le brioche più buone che io abbia mai assaggiato e le uniche per cui posso anche sopportare il burro,
- la pie del pub Blackbird di Londra (in cui vi racconto nel mio libro Londra al femminile). Sono tortine salate che qui preparano fresche ogni giorno: in un guscio di pasta frolla che custodisce pesce, o carne di manzo e birra stout da ricoprire di gravy, o verdura o pollo con spezie indiane. Per noi una tappa fissa,
- anche a Gerusalemme, nella città vecchia, c’è un posto che è una tappa fissa da rispettare. Si chiama Jafar Sweets. Un locale spartano in cui passate al banco a prendere ciò che vi delizia di più e poi vi fermate a uno dei grandi tavoli comuni ad assaggiare le bontà ancora calde. Mentre scrivo sto deglutendo l’acquolina in eccesso,
- i piatti a base di dal (lenticchie) di cui ho vissuto in India. Le migliori forse nel Rajasthan, ma più ancora a Orchha e a Pushkar,
- in India tutto il pane preparato al momento dei pasti: roti, naan, chapati, puri, bhatura, paratha. Purtroppo spesso sogno sia il cheese naan sia il paratha con ripieno di patate o di cavolfiore, ma anche con il formaggio paneer,
- chiudo con la crêpe che ho mangiato l’ultima volta che sono stata a Parigi. Fine 2019. Ovviamente a base di formaggi francesi. Però l’indirizzo lo troverete solo sul mio prossimo libro Parigi al femminile.
A me sembra che anche solo portarsi a casa questi ricordi non sia poco. Ma qui non ci siamo solo noi. Abbiamo iniziato, ora tocca a voi.
Tutte le foto in questo articolo e in questo blog sono state scattate da Francesco Minisci, sono di proprietà di Valigia a due piazze e in utilizzo a Il Giornale online. Sono vietate la riproduzione e la condivisione senza permesso e citazione.
giuseppe says
Finalmente una che ha messo i nomi dei luoghi che ci ha fatto vedere. Mi fa rabbia quando in tv nei telegiornali fanno vedere delle immagini di posti incantevoli e non ti dicono dove li hanno girati.
valigiaaduepiazze says
Mi fa piacere, Giuseppe. Anche a me piace sempre capire subito a quali luoghi si riferiscono le immagini.
Lorella Luche says
Abbiamo tanti viaggi ed esperienze comuni, a partire dall’agosto a San Francisco, non ero abbastanza equipaggiata nonostante sapessi del clima bizzarro della città… Un viaggio tra le 2 Californie iniziato a Frisco e concluso a Cabo San Luca nella Baja, un road trip indimenticabile, con una colonna sonora mixata da mio marito che riascolto proptio in questi giorni in macchina e i ricordi diventano struggenti…
valigiaaduepiazze says
Lorella, che meraviglia la colonna sonora! Ascoltala anche per me. E per quanto riguarda il freddo di San Francisco d’estate…credo che si arrivi sempre troppo poco equipaggiati perché è davvero incredibile da immaginare!