Non tutti viaggiamo con lo stesso spirito. Conosco molte persone che lo fanno solo per dire, al ritorno e davanti agli amici, “sono stato lì” (implicitamente significa “sono uno tosto perché me lo posso permettere”). Ne conosco altrettante per le quali non c’è differenza sia che si trovino a sorseggiare fresco succo di papaya in piena foresta Amazzonica, sia che stiano assaggiando tapas in un baretto lungo la spiaggia di Barceloneta. Intanto sono focalizzati solo sul portare in giro se stessi, senza mettersi in gioco con quello che li circonda, con il modo di vivere, senza respirare davvero l’aria che li circonda. Conosco chi resta chiuso come se fosse a girarsi i pollici sul divano di casa anche trovandosi dall’altra parte del mondo e chi non sa stupirsi davanti a una notte infinita come possono essere quelle estive in Svezia o quando, dopo ore di scomodi pullman e di sudore dei vicini di posto, si trova faccia a faccia con i camini delle fate in Cappadocia, in Turchia.
Bene, io faccio parte di quelle persone che se non entrano dentro alle fibre di una città, nelle viscere di un luogo, allora hanno sbagliato l’approccio del viaggio e rischiano di non portarsi a casa un bel niente. E ci soffrono.
E mi è successo.
Ad esempio con Londra, che non ho amato fino a quando non ci sono stata con Francesco.
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