La morbidezza della pelliccia e il profumo di eucalipto. Sono questi i due ricordi che non ti abbandonano più, dopo aver provato l’emozione di abbracciare un koala. L’Australia, terra immensa e dalla natura selvaggia e così diversa da quella in cui siamo abituati a vivere ed esplorare, affascina per i suoi animali selvatici. Terra di canguri e di koala, ma anche di coccodrilli e di petauri dello zucchero, di echidne e di vombati, di diavoli di Tasmania, di dingos, di wallaby e di numerosi altri marsupiali. Il desiderio, quando si mette piede per la prima volta in Australia, è quello di dare da mangiare ai canguri e di vederli saltare nelle sterminate praterie, ma soprattutto è quello di tenere tra le braccia un koala, quell’orsetto con gli occhi piccoli e a mandorla, con le orecchie pelose e gli artigli nelle zampe. Purtroppo non tutti i parchi permettono di prendere in braccio il koala, ma solo accarezzarlo o nutrirlo offrendogli qualche ramoscello di eucalipto. E quelli che si possono incontrate lungo le strade, per esempio di Kangaroo Island o della Great Ocean Road nello Stato di Victoria, non si fanno avvicinare e comunque sarebbe proibito toccarli.
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Jailsalmer, India: nel deserto del Rajasthan al confine con il Pakistan
Del giorno prima non ricordo quasi niente, se non i fuochi accesi lungo le strade dei quartieri residenziali di Nuova Delhi, là dove dormono all’addiaccio i fuori casta, gli intoccabili. Arrivando in piena notte, la nostra macchina correva verso l’hotel, scansando le ombre in lento movimento, e nei miei occhi si sono fissati per sempre quei roghi nel buio. Il giorno dopo siamo partiti con un volo all’alba per Jodhpur e il nostro aereo si è sollevato nella compatta e fredda nebbia di Delhi. E ci siamo ritrovati a percorrere centinaia di chilometri passando dall’oasi di Osyan verso Jaisalmer, The Golden City, là dove il Rajasthan confina con il Pakistan. Là dove l’aria è fredda di deserto. E’ stato lì che abbiamo avuto il primo contatto con gli intoccabili. Loro non possono entrare nel forte di sabbia di Jaisalmer, siedono all’ingresso, in attesa di un’elemosina o adoperandosi in qualche spettacolo che porti loro un piccolo guadagno. A volte vendono ninnoli e attendono: più che seduti, accovacciati. In una posizione scomoda. Questo è un ricordo che mi è rimasto bene impresso da quel lungo viaggio in India: gli indiani si riposano e aspettano piegati sulle gambe, con solo le piante dei piedi che poggiano terra e il sedere sprofondato all’indietro, rasoterra. Ricordo un’anziana donna, elegante nel suo sari viola, turchese e arancione, seduta sulla strada in salita che porta al forte di Jaisalmer. Ero ancora lontana da lei e le ho sorriso, sembrava una signora che di lì a poco sarebbe tornata a casa a preparare il pasto alle famiglia, ai nipoti che – con le uniformi tutte uguali – tornano da scuola correndo, gesticolando e parlando a voce troppo alta. Mi sono avvicinata ed era una lebbrosa. Ho messo a fuoco i capelli spettinati, lo sguardo senza speranza di chi aspetta di morire augurandosi che la prossima vita sia benevola e la latta per l’elemosina. Era un’intoccabile, una senza casta. Le mancavano le dita delle mani. Ho forse fatto un salto indietro, non lo so, non ero preparata. Da quel momento mi sono resa conto che ero davvero arrivata in India.