Primavera a Istanbul. Il mio cappotto verde a stampa tartan. Il balik ekmek mangiato con l’acquolina in bocca sotto il ponte di Galata. Le voci cantilenanti dei muezzin che, a partire dall’alba, rimbalzano da una moschea all’altra. Le carpe giganti della Cisterna Basilica. Il taxi che sbagliava sempre strada, girando su se stesso e facendoci perdere l’orientamento, e che non riusciva a portarci a Nevizade Sokak. I dolcissimi lokum. Il pepe comprato al bazar delle spezie e che ancora centellino per insaporire alcuni piatti. La maestosità della Basilica di Santa Sofia che fa sentire sperduti e nella quale sembra di poter percepire la stratificazione delle religioni che ha ospitato: cattedrale cattolica prima, sede patriarcale greco-ortodossa poi, moschea dopo, museo oggi. La nebbia di Anadolu Kavagi, alla fine del Bosforo. Il tramonto illuminato da centinaia di puntini lontani, le moschee con i loro minareti, là dove curva il Corno d’Oro, sull’altura di Eyüp. Con qualche giorno a Istanbul non ci si può illudere di capire la complessità della capitale turca né di passare attraverso i vari livelli di questa città, ma certo si può assaporare qualcosa che poi viene a casa con noi. E ci resta per sempre.